Non bastava il Covid per danneggiare la nostra già debole economia.

Oggi chi ha un impresa si trova ad affrontare :

  1. la guerra in Ucraina,
  2. le sanzioni ai russi che non comprano più in Italia,
  3. l’esplosione del costo energetico e il conseguente aumento dell’inflazione. 

Se si aggiunge che in questi mesi si sono intensificate le attività di accertamento degli enti italiani di riscossione e il rischio insolvenza generale, conseguente ai rimborsi dei numerosi prestiti erogati dagli istituti di credito grazie alla garanzia dello Stato la frittata è servita.

Fisco e banche i due prossimi scogli che potrebbero scatenare sulla nostra economia effetti strutturali pesanti e a breve termine.

I nodi generati delle deroghe concesse alle nostre imprese in due anni di pandemia purtroppo stanno venendo al pettine.

Da due anni erano fermi gli accertamenti per tutte quelle imprese che non sono state in grado di pagare le rate delle imposte pregresse. Le rate erano state sospese a seguito della normativa emergenziale Covid-19, visto che molte attività erano costrette alla chiusura causa lockdown e pandemia.

Ora però arriva una fase nuova, molto complicata e la volontà di voler fare impresa – e farlo con tanta passione e coraggio – non basta. 

Lo Stato vuole essere pagato e la procedura per riuscirci è molto più semplice che in passato.

Per lo Stato parliamo di un possibile recupero di 2,4 miliardi di debiti dormienti.

I debiti pregressi risalgono nel tempo, poiché i ruoli, cioè l’iscrizione dei processi pendenti, sono riferiti alle annualità dal 2016. C’è la possibilità per gli enti pubblici di fare il pignoramento conto terzi, tramite conto corrente, senza passare da un decreto ingiuntivo.

In pratica una PMI che non paga gli bloccano il conto corrente e pignorano il dovuto in tempi strettissimi.

L’atto di accertamento diventa immediatamente esecutivo e si passa direttamente all’espropriazione forzata.

La procedura di riscossione è attuata dagli enti locali, Comuni e Regioni.

Per questo motivo migliaia di aziende coinvolte sono a rischio fallimento.
Chi non ha pagato le rate dei debiti è costretto a valutare la rateizzazione tributaria per bloccare il pagamento del dovuto, interrompendo così i pignoramenti e le azioni esecutive.

Si prevedono per queste trattative in parte impreviste, almeno per la determinazione dimostrata ad oggi dallo Stato che sembra non voler concedere altre tregue.

Come scrive Italia Oggi, sembra che le imprese coinvolte su questo fronte siano il 43% complessivo dei contribuenti, pari a 500.000 aziende italiane. 

Questo sul lato tributi, ma non basta. 

Alla condizione di costoro va a sovrapporsi un altro problema, quello delle aziende che hanno usufruito della moratoria dei finanziamenti concessi dalle banche con il decreto legge “Cura Italia” nella primavera del 2020.

In pratica alle piccole, medie e microimprese, erano state sospese le scadenze per il pagamento di rate di prestiti e mutui, canoni di leasing, prestiti non rateizzati fino a dicembre 2020.

La misura è scaduta a fine dicembre e non è stata rinnovata per evitare una procedura di illegittimità dell’Unione Europea per aiuti di Stato. C’è stata una proroga che ha previsto la sospensione  del pagamento della sola quota di capitale in scadenza prima di quella data con iscrizione del debitore come Forbone in centrale rischi e l’impossibilità – da tutti forse non conosciuta – di non poter più accedere al credito per il prossimo futuro per dichiarata incapacità di ottemperare ai propri impegni.

Il 31 marzo prende quindi avvio lo stop alle moratorie del Decreto Cura Italia: fino a questo momento, l’impresa che ha ricevuto un finanziamento ha avuto la possibilità di chiedere una moratoria, con l’effetto di sospendere il pagamento del proprio debito rinviandolo al futuro.

Dal 31 in poi la stessa impresa dovrà ricominciare a pagare il debito (capitale e interessi), senza alcun percorso di gradualità.

Il 30 giugno inoltre cesserà anche il regime agevolato delle garanzie statali e gratuite sui finanziamenti bancari, operate finora dal Ministero dello Sviluppo Economico e da Sace. 

Ciò significa che se sinora le banche hanno fatto affidamento su una valutazione del merito di credito di una azienda contando su una garanzia dello Stato, dal 1 luglio si tornerà a chiedere e valutare gli strumenti di garanzia forniti dagli imprenditori, che in questo momento stanno tornando ai margini ante-covid in un contesto di delicata e fragile ripresa.

Sarà possibile ricorrere agli strumenti di garanzia offerti dallo Stato, ma non saranno più gratuiti e non forniranno più le ampie coperture previste nella fase emergenziale, il che significa che il ricorso agli stessi dovrà risultare economicamente efficiente nel contesto di riferimento.

Il rating delle imprese e i relativi indicatori tra cui DSCR torneranno a farla da padrone. 

Considerando inoltre la quantità di nuova liquidità immessa sulle Imprese (sfruttando la misura temporanea 3.2 che ha portato a finanziamenti garantiti dallo Stato, concessi con mesi di ammortamento) che ha innalzando l’indebitamento a medio lungo termine dalle PMI le premesse per un pesante Credit Crunch ci sono tutte. 

Oggi l’accavallarsi di queste condizioni potrebbe creare un mix devastante per il sistema Paese, con un ulteriore indebolimento del tessuto produttivo, altri indebitamenti e una perdita generale del potere d’acquisto degli italiani.

Per Unimpresa la condizione di rischio insolvenza, per il mancato pagamento delle rate dei mutui, coinvolgerebbe 700.000 imprese, con un possibile crac da 27 miliardi di euro. 694.894 aziende italiane, a partire dal 2020, avevano sospeso le rate di prestiti bancari per un importo complessivo di 27,1 miliardi.

Già nel 2021, secondo un report dell’Istat, metà delle nostre imprese erano strutturalmente a rischio fallimento. 

Per la precisione si sosteneva che il 45% non avrebbe retto ad un’altra crisi. E qui tra guerra, speculazione sul costo dell’energia e aumento dell’inflazione parliamo di un quadro molto severo di problemi.

La spinta inflazionistica è dovuta anche a tutto questo inevitabile sistema. 

Ci troviamo in un momento delicato proprio quando i fatturati sembrano tornare a un periodo pre-pandemia, le aziende non solo devono sostenere i loro oneri di funzionamento, ma devono recuperare i debiti fiscali, previdenziali e bancari che erano stati congelati dalle moratorie, il tutto in un contesto dove la fase emergenziale non può dirsi del tutto passata. 

Inutile dimenticare che, mentre le aziende virtuose hanno usato i finanziamenti “covid” come sostegno vero per dare continuità alla crescita e all’innovazione, altri ne hanno fatto un uso precario andando a coprire buchi precedenti e viziando in parte il mercato.

Rinviare al futuro ancora il debito corrente non è più accettato e possibile. 

Ma quindi quali sono le soluzioni per superare questa fase delicata? 

Sicuramente sfruttare questi ultimi mesi per accaparrarsi nuova finanza a condizioni ancora accettabili.

Significa fare cassa a medio lungo termine per non trovarsi con i conti in rosso evitando che il Credit Crunch e il costo del denaro blocchi le erogazioni (o lo faccia con il contagocce e a prezzi folli rispetto ad oggi i cui tassi di mercato sono ancora negativi).

Portare a casa un chirografario con garanzia dello Stato a 9 anni (il decreto lo prevede) con un pre-ammortamento di 6/12 mesi e tasso tra il 2/3% è cosa buona e giusta per calmierare gli incrementi previsti e fare sulle scorte o acquisti arbitraggio. 

Ma fare ulteriore debito come detto non basta e può diventare deleterio.

Perché se i margini sono inferiori al costo del denaro che andiamo ad acquistare e non finanziamo attivi il rischio che si crei l’effetto boomerang esiste. 

Serve un monitoraggio continuo dei costi, delle fonti di finanziamento, servono delle previsioni che diano alla impresa una direzione da seguire. 

Questo può essere fatto solo attraverso un direttore finanziario (Chief Financial Officer, CFO) ovvero colui che si occupa della gestione delle finanze di un’azienda.

Le sue funzioni comprendono il monitoraggio del flusso di cassa e la pianificazione finanziaria, nonché l’analisi dei punti di forza e di debolezza dell’azienda e la proposta di azioni correttive.

Peccato che un CFO può costare dai 120/140000 Euro all’anno e le nostre PMI non possono certo permetterselo e in alcuni casi le sue piene funzioni sarebbero in molti casi superflue. L’alternativa esiste e consiste nel prendersi un CFO in affitto pagandolo molto bene e usandolo per le sole cose che servono. 

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La direzione da seguire viene invece stabilita solo attraverso un Business plan ovvero uno strumento in grado di guidarti nelle scelte future evitando errori che se non messi prima su carta possono davvero costarti caro. 

Anche questo servizio nasce dalla vera esigenza che la PMI italiana ha manifestato in questi anni. 

Business Plan e CFO sono gli investimenti che possono permetterti di programmare il tuo futuro, ottenere il massimo dalle banche e dalla finanza agevolata che con il nuovo PNRR promette molto alle PMI che intendono proseguire nella loro impresa di fare impresa e farcela.

Vivere o stare in piedi grazie ai sussidi non è più possibile ed è arrivato il momento agire con due strumenti che hanno lo scopo di riportare a galla il destino di tante PMI abbandonate in questi ultimi due anni difficili.

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Nella speranza che questo articolo ti sia stato d’aiuto di chiedo di condividerlo con chi potesse esserne interessato.

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A presto.

Dott. Tescari.

 

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